di Carmela Pantano
Mi affascina la rete, per gli stessi motivi per cui mi affascinano i manicomi. Ho sempre guardato i social con un misto di interesse e paura, curiosità per le immense potenzialità di un mezzo e timore per il fatto che quel mezzo sia nelle mani di noi umani, gli esseri più limitati di questo mondo.
Come sempre, noi bipedi, con la stessa stupidità con cui abbiamo surriscaldato la terra e fatto estinguere il rinoceronte bianco ed il dodo, non siamo sempre in grado di sfruttare le potenzialità di una finestra immensa perennemente spalancata sull’universo. La sporchiamo, questa finestra, la macchiamo e, soprattutto, la usiamo come un’arma, la più subdola, vigliacca, perché puntata contro uno schermo, senza vedere la vittima, cosa che richiede un immenso coraggio.
Ho studiato per lavoro il cyberbullismo, quell’attaccare in vari modi giovani menti con azioni aggressive e persecutorie veicolate attraverso i social o i cellulari. Ci sono storie che fanno rabbrividire, cifre inimmaginabili, giovani vite spezzate senza aver neppure raggiunto la maggiore età, famiglie distrutte per non aver capito in tempo o per non essere riusciti a far nulla. Le cifre degli ultimi anni sono paurose con insulti, provocazioni intenzionali, minacce fisiche, stalking, molestie che, in tutto il mondo, hanno causato 200.000 vittime, questo secondo i dati ufficiali recentemente diffusi dall’ONG Internazionale Bullismo Senza Frontiere. La soglia di età sta progressivamente scendendo e, se fino a qualche anno fa, i più coinvolti erano gli adolescenti, adesso la soglia si è abbassata fino a toccare sempre più i bambini di età inferiore ai 9 anni. Assassini senza volto che uccidono utilizzando Facebook, Twitter, Instagram e Whats App. Non possono essere definiti in altro modo, assassini senza volto.
Se le vittime hanno bisogno di aiuto, i carnefici ancora di più. Sono poveri esseri, privi di amici, di famiglia, senza nessun legame con il luogo in cui vivono, che si tuffano in un mondo lontano, nel tempo e nello spazio, perché nel luogo e nel momento in cui vivono non c’è nulla, si concentrano morbosamente su azioni che altri fanno, in vite che altri vivono perché la propria, di vita, è vuota, priva di ogni cosa. Neppure conoscono le persone di cui scrivono, di cui diffondono immagini che riguardano sempre gli altri, farneticando, trasformano azioni e pensieri, entrano nel merito di scelte altrui, attaccano famigliari, padri, figli e chiunque altro. Non parlano di loro stessi perché non hanno nulla da dire, né postano foto che riguardano loro stessi perché non sanno neppure cosa significhi andare al cinema o in pizzeria con qualcuno. Pensano che si possa litigare attraverso uno schermo, pensano che si possa contare qualcosa per il solo fatto di scrivere sui social, sulla vita vissuta da altri. Ci vuole coraggio per litigare in maniera vera con gli altri, ci vuole coraggio per conoscere le persone. E loro, ne sono privi. Se si trovassero coinvolti in una discussione vera, occhi negli occhi, viso a viso, non sarebbero in grado neppure di proferire una sillaba, non uscirebbe suono dalla loro bocca, probabilmente avrebbero bisogno persino di un pannolone. I più sono ignoranti. Gli anziani di una volta, quelli che non avevano potuto studiare per le vicende della vita, provavano vergogna a condividere i propri scritti con altri e, quando era indispensabile, facevano in modo che figli o nipoti li leggessero per correggerli. Adesso, invece, l’ignoranza si mostra con post dove alla grammatica italiana non resta altro da fare che recarsi in un negozio fai da te e comprare un metro di corda, giusto per porre fine all’immensa sofferenza.
Vivono di “like”, di “mi piace”, come se questo fosse segno di rispetto, di condivisione, di stima, espressi da chi neppure li conosce, attraverso un tasto che persino il mio gatto, quando passa elegantemente sulla testiera, potrebbe schiacciare per sbaglio. Pensano di essere “unici” ma sono solo casi da studiare, come mille altri. Alimentati da scarabei stercorari che forniscono loro spunti, materiali e ragionamenti, a rappresentare il reale pericolo, il vero squallore, perché usano menti malate per non esporsi in prima persona, come in una scatola cinese, dietro altri, altri ancora e poi dietro uno schermo.
Non sono esseri che devono far provocare rabbia, solo pietà, sono falliti, gente che ha bisogno di aiuto, di qualcuno davvero bravo in grado di curarli.
Noi in tutto questo cosa possiamo fare? Possiamo semplicemente continuare a realizzare i nostri progetti, lasciando a questi imbecilli il piacere di guardarci attraverso lo schermo di un computer mentre noi viviamo.