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Editoriale

La volontà di ferire

La volontà di ferire
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di Carmela Pantano

Da 24 ore le cronache regionali e nazionali raccontano la storia di una giovane donna, poco più che una ragazzina, la cui vita è stata spezzata, in un batter di ciglia. Perché la vita è così, forte come una roccia, profonda come le radici del più grande albero, immensa come l’universo ma, alla fine dei conti, basta un nulla, il movimento d’aria di un battito d’ali, per farla volare via.
Ormai siamo abituati ad episodi del genere. Ahinoi, lo siamo, ma non dovrebbe essere così. Non può essere così. Vicende molto simili, tanto che poi i volti ed i nomi si confondono, con un unico filo conduttore, vite spezzate senza motivo. Poi quando questi fatti sono così vicini, in luoghi che conosci, in ambienti noti, allora un attimo ti fermi a pensare, non dove sia finito Dio, ma dove sia finita l’umanità. Perché quella ragazza potrebbe essere la figlia, la nipote, la sorella di chiunque.
Sara. 22 anni. Una lama. Fine vita. Questo è quanto. Dei genitori, dei fratelli, che in una normale giornata come tante, hanno ricevuto una telefonata in cui veniva detto che la loro cara non si trovava su una sedia del bar a prendere un aperitivo, in un vagone del treno di ritorno a casa, in un negozio a comprare un abito per la prossima festa ma sul tavolo di un obitorio. Si può impazzire per cose del genere? Si, credo di sì. Aveva da poco inviato la mail per scegliere l’argomento della tesi. Quante speranze in quell’invio, quante ansie per le possibili risposte, per la celerità dei tempi, per le tante cose da fare in poco tempo. E poi? Restare a Messina? Tornare a Misilmeri? Andare fuori dalla Sicilia? Quanti dubbi, prospettive, pensieri, le meravigliose essenze della vita che pulsa, che si fa strada. Nulla di tutto questo. Un taglio netto della giugulare.
Non credo che possa esistere perdono. Credo che neppure un Santo, neppure Dio sia in grado di perdonare la ferma volontà di ferire, di distruggere ciò che non si riesce ad avere. L’attenzione che diventa morbosità, poi ossessione ed infine assassinio, meccanismi mentali impossibili da concepire in una logica di normalità ma che, ormai, sempre più spesso, sembrano aver sostituito il comune ordine delle cose. Forse per questo questi fatti colpiscono così tanto, perché prima le vicende di sangue erano legate alla criminalità, alla droga, alla prostituzione, a cose lontane dai più che, per questo non si sentivano toccati. Adesso non è il boss a far paura ma il ragazzino con le scarpe adidas e la faccia pulita.
Cosa porta un rifiuto, un non riuscire a ottenere quel che si vorrebbe a ritenere che, tutto ciò, sia più importante di una vita? Una vita. Un battito d’infinito. Una traccia di eternità. La possibilità di occupare un pezzo di questo mondo. Un puntino di Dio su questa terra.
Quelli bravi dicono che quando succedono queste cose il sistema fallisce. Si dà sempre colpa al sistema, a qualcosa di generico, di non visibile, di lontano, dove le responsabilità di ciascuno sono mescolate insieme a quelle di una moltitudine e quindi nulle. Mi piace pensare, forse perché più semplice, che le cause siano sempre molto più terra terra.
Parecchi anni fa, nel mio lavoro, dovetti aiutare dei bambini a gestire dei lutti importanti. Chi aveva più esperienza di me, mi insegnò che nessuno, soprattutto chi sembra più fragile, deve essere protetto dalle emozioni e dai dolori, anche immensi, apparentemente insostenibili. Se si mette un velo tra quel dolore e quella fragilità, la copertura diventa un macigno che, a poco a poco, negli anni finirà per schiacciarli. Ogni emozione si affronta, ogni dolore si attraversa. Solo così si può essere in grado di capire che esiste il fallimento, esistono le cose che non si ottengono, che ciò che si vorrebbe avere a tutti i costi senza riuscirci, può essere sostituito da qualcosa di altrettanto bello e importante.
Educare al fallimento. All’insuccesso. Ai no. Ai pali in fronte. Ai limiti. Ci sarebbe da creare una nuova materia scolastica: educazione all’imperfezione. Sarebbe il primo passo per evitare che una Sara muoia, in mezzo ad una strada, in pochi secondi, durante una normale giornata di vita.

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