di Casimiro Bellone
Premessa
Alle volte capita di sentire la gente condannare il desiderio che brucia dentro un giovane uomo, non considerando il fatto che si tratta di qualcosa del tutto naturale, proprio come mangiare, respirare o camminare. Capita poi di vedere una foto, pubblicata chissà da chi, che in un attimo ti catapulta indietro nel tempo, quando ancora giovane carico di sogni e speranze, mentre ti affacciavi alla vita da uomo cominciavi a sentire qualcosa che, in particolari momenti, ti metteva dentro la voglia di nuove esperienze, come quel giorno caldo e sciroccoso di una ormai lontana primavera. Ecco allora che la memoria aziona l’interruttore del tempo, portandoti a ricordare e raccontare qualche episodio forse vissuto, o forse soltanto immaginato e generato dalla fantasia. Leggendolo, però, sono certo che in tanti troveranno delle analogie con qualche episodio del proprio passato.
———————————————————
È strano come l’immagine di una bella donna, in questo caso una bella mora siciliana nel pieno della sua bellezza e dirompente femminilità, spinga all’audacia. Il suo nome era Carmela.
In quel caldo pomeriggio del mese di maggio del 1964, non si stava per niente bene. A causa di un leggero venticello di scirocco, l’aria dentro casa era più calda del solito. Anche il vecchio ventilatore mi aveva lasciato, abbandonato per sempre, e così, madido di sudore, andai in cucina dove cercai e presi u muscaluoru. Avevo la gola asciutta, così dalla ghiacciaia tirai fuori una fresca bottiglietta di gassosa al limone e infine andai a cercare un po’ di refrigerio sul balcone, all’ombra, certo che avrei trovato il modo di ristorarmi. Abbacchiato dal caldo afoso mi sdivacavi supra a durmusa pi farimi un pinnicuneddu e, chiusi gli occhi, cominciai pian piano a sciusciarimi cu muscaluoru. Di tanto in tanto, sperando nell’arrivo di Morfeo, mandavo giù piccoli sorsi di gazzusa p’arrifriscarimi u cannarozzu. Erano passati una decina minuti, stavo per addormentarmi quando sentì il forte rumore di un’imposta sbattere contro al muro. Forse la vecchia e acida signora Anna, che viveva nella casa di fronte alla mia, come al solito aveva sbarracchiato a pirsiana nta na maniera n’anticchiedda rumurusa. A fatica aprì gli occhi e guardai. Le imposte erano aperte ma non la vidi, quindi li richiusi sperando di riprendere a pinnicata appena interrotta.
Nemmeno il tempo d’appinnicunarimi, quando ancora una volta qualcuno pensò bene di svegliarmi gridando: sembrava si fossero messi d’accordo pi rumpirimi i cabbasisi. Questa volta era stato u zzu Caliddu che, rimasto senza sigari, con la sua stridula voce chiamava suo nipote. «Tanu! Attia Tanu veni cca, v’accattami i sicarri». Contrariato stavo per imprecare, ma qualcosa di meravigliosamente bello attirò la mia attenzione. Mi bloccai, restai a bocca aperta a guardare la dolce visione, offerta in quel momento ai miei occhi dalla casa dall’altro lato della strada: non si trattava della vecchia signora Anna ma della signora Carmela che viveva nella casa accanto alla sua. La signora Carmela, forse involontariamente, mi lasso’ a curtu ri ciatu e senza paroli. Grazie alla luce del sole calante, che a quell’ora del giorno illuminava la sua grande cucina, la vidi che stava lì a trafichiari. Mi parsi a mia chi stava ‘mpastannu anticchia i farina, fossi pi farisi i maccarruna. Per non provocare alcun rumore rimasi fermo, senza battere nemmeno le ciglia, a guardarla mentre in quel suo movimento alternato, necessario per lavorare l’impasto, continuava a darsi da fare. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella meravigliosa creatura che, intenta ad impastare la farina, s’annacava avanti e narreri e a ogni ‘nnacamentu quel suo vestitino, di leggerissimo velo crespo, scummighiava e ammucciava pochi centimetri delle sue bellissime e ben tornite gambe. “Matruzza mia chi maravigghia!” pensai mentre il mio cervello andò in confusione, così, colpito dalla meravigliosa visione, arristavu alluccutu a taliari tuttu du beniridiu. Intanto, vuoi per il caldo afoso, vuoi per ciò che stavo vedendo, scendendo giù dalla fronte il sudore mi offuscò la vista non permettendomi di vedere bene, dunque cercai e tirai fuori il fazzoletto per asciugarmi la fronte e gli occhi. Rimasi imbambolato ancora per alcuni minuti e mentre continuavo a passarmi il fazzoletto sul viso, sentì dentro di me una voce gridare: “Chiamala scimunitu! Parracci! Chi st’aspittannu a carrozza?”.
Dovevo parlarle, cercare il modo per attaccare bottone, non potevo non tentare l’approccio e così, con un filo di voce, per non fare sentire e insospettire la signora Anna né u zzu Caliddu, che diceva di essere sordo ma sapeva tutto di tutti, la chiamai: “Signura Carmela, Signura Carmela”. Lei sentì e, senza mollare l’impasto, si girò per capire chi stesse chiamandola. Mi vide ma non sapendo cosa avevo da dirle esclamò “Chi voi, un lu viri ca sugnu ‘nchiffarata?”. Inventai una scusa credibile, e risposi: “Ci vulia dumannari si pi casu avissi n’anticchia i ghiacciu”. Soltanto allora lei lasciò l’impasto e venne fuori sul balconcino, si appoggiò alla ringhiera e, sporgendosi un tantino come ad avvicinarsi per sentire meglio, disse “Un capivu, chi dicisti?”. Fu in quel momento che i raggi del sole si specchiarono sulle mille goccioline di sudore che le imperlavano il petto come per adornarlo e impreziosire quelle sue superbe e meravigliose coppe.
Continua…